È tempo di tornare in Africa, continente che rapisce il cuore di molti che mi ospitò anni fa quando andai in Marocco. A questo giro la meta è molto più vicina all’equatore il che mi dà la possibilità di vedere una parte del continente completamente diversa, l’Africa Nera di cui tutti parlano, finalmente davanti ai miei occhi.
I miei viaggi iniziano sempre quando lascio casa, o anche molto prima a dire il vero. Lisbona si intromette nell’itinerario offrendomi dodici ore di scalo, troppo poche per girarla come si deve ma abbastanza per andare in centro e fare colazione con gli adorabili pasteis de nata. Solo quando torno in aeroporto e vado al gate per prendere il volo per Dakar, mi ritrovo circondata da uomini senegalesi con abiti tradizionali e donne con i bimbi legati con una fascia sulla schiena. Inizio così ad allontanarmi dalla cultura europea e a mettere a fuoco il mio obiettivo: Africa sto arrivando.

Prima notte a Dakar. Dopo solo un paio d’ore di sonno in un alloggio della capitale e una colazione a base di baguette&croissant, sono carica per scoprire cosa ha da offrirmi questo Paese. Mi imbarco sul traghetto per raggiungere l’isola di Gorée, patrimonio dell’UNESCO dove si erge la Casa degli schiavi, testimonianza storica dell’indimenticabile tratta degli schiavi. Sull’isola si respira una particolare aria di tranquillità e spensieratezza, nessuna macchina, solo persone del luogo che camminano lentamente tra le vie, giocano a dama all’ombra dei baobab e si godono la presenza della spiaggia.
Nel pomeriggio ci spostiamo sulle rive del Lago Rosa, una delle attrattive più fotografate dal Senegal. Appena arrivata scopro che il colore dell’acqua non è degno del suo nome o almeno non in questo giorno dell’anno. È il 31 dicembre e manca poco prima che il sole tramonti. Saluto il 2022 con un adrenalinico giro in quad prima sulle dune di sabbia poi sulla riva del mare rincorrendo il tramonto che illumina uno dei momenti più spensierati del viaggio, perfetto per coronare al meglio questo anno incredibile. A condire la giornata sono la cena e i balli tipici senegalesi insieme agli abitanti del luogo.

Sveglia presto per vedere l’alba per poi ripartire verso Kayar, il villaggio dei pescatori più prosperoso di tutto il Paese. Resto sbalordita dalla quantità di pesce che viene scaricato sulla spiaggia a ritmi incalzanti e dal numero di persone coinvolte nell’attività ittica. Chili di pesce sotto i 30 gradi di questo primo gennaio, ondate di persone che fissano me e i miei compagni di viaggio perché in quel contesto siamo noi i pesci fuor d’acqua. Eppure quant’è affascinante assistere a quei loro semplici momenti quotidiani e quanto sono belle le famiglie e i bambini che ci accolgono genuinamente con gioia e sorrisi. Ora capisco perché il Senegal viene chiamato “il Paese dell’accoglienza”.

Dopo esserci spinti a nord per raggiungere l’ex capitale Saint Louis, storica colonia francese che vanta una popolazione mista tra bianchi e neri, ci immergiamo nel deserto per trascorrere la notte in un campo tendato. Una vecchia jeep dal motore discutibile ci conduce in mezzo alle dune dove veniamo accolti con una cena che apprezziamo particolarmente tra risate e l’immancabile cous cous. Ma resta la fase digestiva quella più memorabile: ballare sotto le stelle attorno al fuoco alimentato dalla musica dei jambee suonati dalle mani esperte dei senegalesi. Strabiliante la loro abilità nel creare ritmo e seguirlo con tutto il corpo.
Per un’immersione ancora più profonda nella cultura senegalese, la notte successiva la trascorro a casa di una famiglia del luogo dove i bambini non vedono l’ora di giocare con noi e godere della nostra presenza. Non tutti i cittadini hanno l’opportunità di dormire sotto un tetto simile a quello che copre, qui ed ora, la mia testa. In Senegal la situazione è ben più difficile e sfidante per buona parte della popolazione, le famiglie vivono con poche risorse e le condizioni sono precarie. Ascolto le storie di chi è fuggito da quel luogo alla ricerca di un futuro migliore, storie che colpiscono soprattutto quando guardi negli occhi chi le ha vissute.
Le tappe del viaggio non sono poche eppure il tempo scorre ad una velocità dimezzata rispetto a quella a cui siamo abituati noi europei. Le piroge si muovono lente nel fiume, gli abitanti passano le giornate seduti all’ombra di un baobab in attesa del nulla. Entri a piè pari nella loro vita e convivi con la cultura locale, ricordando che nulla è più bello della diversità. È un Paese che emoziona ed è un viaggio introspettivo che ti mette di fronte ad una realtà nuda e cruda che tocca le corde giuste, quelle delle emozioni.

L’apice dell’entusiasmo lo vivo quando dedichiamo una giornata a visitare il mercato di Mbour che dà una fotografia puntuale e completa della vita in Senegal. Chi mi conosce sa quanto ci tenga a dedicare del tempo ai mercati locali perché credo che sia una delle esperienze più autentiche per avvicinarsi alla cultura degli autoctoni.
Di istanti che hanno arricchito il viaggio ce ne sono stati parecchi e spaziano dall’avvistamento di zebre, giraffe e rinoceronti all’essere entrata nel tronco di un baobab (dal diametro di 4 metri) dove ad aspettarmi c’erano centinaia di pipistrelli. Dalla partita a frisbee sulla spiaggia con i miei compagni alle chiacchierate con loro nonostante i chili di cipolla mangiata per giorni. Perché la bellezza sta sempre lì, nella condivisione e nella semplicità.